martedì 9 novembre 2010

Larmar och gör sig till

 

Ingmar Bergman.
IT: Vanità e affanni
FR: En présence d'un clown

Doppio cuoricino.

Roberto Escobar, Il Sole 24 Ore, 15 marzo 1998


Nell'85, d'improvviso, compresi che non avrei più fatto film: il mio corpo «si rifiutava di collaborare». Così scrive Ingmar Bergman nell'87(Lanterna magica, Garzanti). Ora, aggiunge, sento arrivare «un crepuscolo che non ha niente a che fare con la morte ma è collegato allo spegnersi». Dieci anni dopo, quasi ottantenne, torna a guardare il mondo attraverso l'occhio d'una macchina da presa e proprio per raccontare d'uno spegnersi, d'un crepuscolo: quello dello zio Carl Akerblom, adombrato già in Fanny e Alexander (1982). In quella grande commedia che volgeva in gioia il tragico della vita, il suo cognome era Ekdahl e, soprattutto, non mostrava segni di follia creativa: era solo un uomo infelice. C'era però, tra gli altri personaggi, Isak Jacobi, uno strano antiquario abituato a frequentare la dimensione meravigliosa e "teatrale" dell'illusione e della rappresentazione. Era lui che, alla fine, liberava del tutto Alexander (alter ego evidente di Bergman) e la sorella Fanny dalla cupezza mortale del vescovo Edvard Vergerus, secondo marito della loro madre. Ora, in Vanità e affanni (Larmar och gor sig till, Svezia, 1997), l'infelicità della vita e la gioia della rappresentazione stanno, tutte e due insieme, nello stesso personaggio, lo zio Carl appunto. Che l'intento di Bergman non sia più quello, lieve, di quindici anni prima è subito annunciato con le parole che William Shakespeare fa dire a Macbeth. «La vita non è che un'ombra che cammina», si legge sullo schermo nero che apre il film, «un povero commediante che si pavoneggia e si dimena per un'ora sulla scena e poi non lo si sente mai più. È una storia raccontata da un idiota, piena di frastuono e di furore, che non significa nulla». Così è la vita di Carl, o almeno l'immagine che egli se ne fa. Con la consapevolezza dolorosa della follia, è assediato nei suoi sogni dalla morte: una maschera laida ben più sfuggente dello scheletro con la falce messoria cui, guerriero ostinato, Antonius Block teneva fronte nel '56(Il settimo sigillo). Il naufragio al quale sta avviandosi gli appare terribilmente simile a quello che, un secolo prima, era stato d'uno degli uomini grandi dell'Ottocento, Franz Schubert, e di cui cerca il segreto in un passaggio musicale ascoltato e riascoltato al grammofono.
Questo si domanda lo zio Carl, e Bergman con lui: può la dimensione meravigliosa della rappresentazione e dell'arte vincere sempre il tragico della vita? Oppure, quando d'improvviso muore il futuro, quando il corpo "si rifiuta di collaborare", non c'è più musica, non c'è più teatro, non c'è più cinema? La seconda parte di Vanità e affanni è la risposta a queste domande, una risposta che Bergman cerca una volta di più in quell'«illusione progettata fin nei minimi dettagli» che è o è stato per lui il cinema. Come quando, bambino provvisoriamente felice, manipolava pezzi di vecchia pellicola, di nuovo prova ad affidarsi alla leggerezza creativa della luce e dell'ombra. Insieme con il fantasma dello zio Carl, torna così anche quello della madre, la «giovane signora Bergman» di settanta e più anni fa. In una piccola sala buia, dunque, Carl cerca di far rivivere la grandezza di Schubert, come se il suo naufragio non fosse avvenuto mai. Quando poi la meraviglia di questa rinascita minaccia d'essere travolta dal fuoco - il cinema, ricorda Bergman, mantiene tutta la precarietà che un tempo gli veniva dall'infiammabilità della pellicola -, allora la finzione si fa ancora più radicale, ancora più "illusoria". Invece d'essere proiettato con fasci di luce su un telo bianco, il film vive nel racconto che il suo autore e i suoi attori ne fanno nella sala trasformata in teatro. Si tratta, qui, d'un raddoppiamento della rappresentazione, d'un cinema che rinuncia a ogni residuo di materialità e s'affida alla nuda virtualità della parola. Un'illusione magica e meravigliosa, questa, che parrebbe degna del vecchio Isak Jacobi, lo stregone di Fanny e Alexander. E tuttavia, terminata la rappresentazione, accomiatatisi gli spettatori (ognuno rientra nella banalità della vita), nulla resta a Carl della sua stessa magia. Il suo corpo di nuovo gli annuncia il naufragio. Di nuovo una morte laida assedia i suoi sogni. Giunto alla vecchiaia, Bergman - uno degli uomini grandi del Novecento - non ha dunque il conforto che pure, nel '57, era concesso al professor Isak Borg? Non c'è, per lui, alcun "posto delle fragole" cui tornare con il cinema, acquietando l'infelicità del presente e l'angoscia del futuro nella memoria del passato? Davvero la sua vita non è che ombra sfuggente, tempo breve d'un commediante, frastuono e furore che svaniscono nel nulla? Qualunque cosa egli stesso ne pensi, a noi pare una magia e una meraviglia che, quasi ottantenne, ancora una volta abbia guardato il mondo attraverso l'occhio d'una macchina da presa.


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